Le aree interne come spina dorsale d’Italia: visioni, leve e futuro. Il nostro punto di vista dal MUSA
Dal confronto agli Stati Generali delle Aree Interne a Benevento, una riflessione su ciò che serve davvero per trasformare territori fragili in territori centrali.
Gli Appennini attraversano l’Italia come una dorsale invisibile: un’ossatura naturale che tiene insieme il Paese. Le aree interne sono la loro eco sociale, culturale ed economica: custodi di biodiversità, tradizioni e comunità, ma troppo spesso confinate a margini geografici e politici.
Agli Stati Generali delle Aree Interne, ospitati al MUSA di Benevento, abbiamo ascoltato, osservato e riflettuto. Questo è il nostro punto di vista: non un riassunto del dibattito, ma un contributo per immaginare leve concrete e durature.
Quali possono essere le leve per lo sviluppo delle aree interne italiane, specie del sud?
Bella domanda — e anche una di quelle che hanno bisogno di essere affrontate con la testa fredda e il cuore caldo.
Le aree interne del Sud Italia sono una miniera (in molti casi letteralmente) di biodiversità, cultura e intelligenza diffusa, ma soffrono di un disequilibrio sistemico che non si risolve con bandi o festival isolati. Per ragionare con ordine, possiamo distinguere leve strutturali, leve economiche e leve culturali/sociali, ma anche interrogarci su cosa davvero significhi “sviluppo” per territori che non vogliono diventare copie minori delle città.
1. Leve strutturali: infrastrutture, connessioni, servizi
Partiamo dalla base: senza strade curate, treni che arrivano e una connessione digitale decente, ogni idea resta sulla carta.
Penso a un piccolo caseificio nell’entroterra: produce eccellenze, ma se per spedire un pacco serve un’ora di macchina fino al corriere, resta invisibile. Oppure al giovane che, senza fibra, non può lavorare da remoto e finisce per andarsene.
Non è una questione di “spese”, ma di investimenti che abilitano tutto il resto.
Le aree interne del Sud non sono povere di idee: sono povere di collegamenti.
Queste non sono “spese”, ma investimenti abilitanti. Nessuna rinascita territoriale è possibile se il cittadino deve guidare un’ora per fare un’ecografia o se l’imprenditore non può spedire un pacco in modo competitivo.
2. Leve economiche: filiere, innovazione, fiscalità
Il punto cruciale è non trattare le aree interne come periferie, ma come ecosistemi produttivi autonomi.
Qui possono nascere filiere corte che vanno dal campo alla tavola, senza passaggi che prosciugano valore. Piattaforme digitali come Origo Market vanno proprio in questa direzione.
E poi c’è l’innovazione: piccoli laboratori rurali, fablab, sensori nei campi, blockchain per la tracciabilità del vino o dell’olio. Innovazione a misura di paese, non di multinazionale.
Serve anche una fiscalità di vantaggio — non per attirare colossi, ma per dare fiato alle microimprese che creano lavoro vero.
3. Leve culturali e sociali: comunità, identità, governance
Qui si gioca la partita più profonda.
I giovani se ne vanno non solo perché non trovano lavoro, ma perché non vedono prospettiva. Bisogna offrirgliela: coworking rurali, credito agevolato, formazione tecnica legata a ciò che il territorio sa fare bene (vino, olio, legno, agricoltura digitale).
E poi la cooperazione: nei paesi spesso ci si guarda come concorrenti, ma il futuro sta nel fare rete. Consorzi di produttori, marchi comuni, eventi condivisi.
Infine la cultura: non basta “valorizzare le tradizioni”. Serve raccontarle con linguaggi nuovi — cinema, musica, storytelling, esperienze immersive. Non per imbalsamare il passato, ma per renderlo vivo.
La leva più dimenticata: il tempo
Qui sta forse il punto più scomodo. Lo sviluppo delle aree interne richiede lentezza, ma non immobilismo.
Un piano serio non può avere scadenze elettorali: deve guardare ai prossimi 10–15 anni, con obiettivi intermedi e monitoraggio costante.
La fretta produce solo progetti-vetrina. La costanza, invece, costruisce radici.
Dal MUSA siamo usciti con una convinzione: le aree interne non sono un problema da risolvere, ma un’opportunità da coltivare.
Non basta chiedere “più fondi” o “più turismo”. Serve una visione dove infrastrutture, economia e comunità camminano insieme.
Perché, alla fine, gli Appennini non sono soltanto montagne: sono una spina dorsale. E se la schiena è forte, tutto il corpo regge.